Un caldo sole d’inizio pomeriggio disegnava geometrici giochi di luce dorata sulle pareti della piccola stanza dilatandone lo spazio. Eros era fuori e Marco ne approfittò per sgranchirsi un po’ le gambe.
Si avvicinò alla porta-finestra posta sul fondo della stanza e l’aprì di quel tanto che gli permise di annusare un’aria che sapeva di coriandoli.
Senza neanche rendersene conto socchiuse gli occhi lasciandosi cullare da tutto quel tepore, ma un vociare allegro di bambini lo distolse e li riaprì quasi subito.
Guardò fuori: il piccolo balcone dava su un incrocio di stradine, piccole e trafficate, di macchine e persone. All’angolo opposto i tavolini di un bar erano occupati da un gruppo di ragazzini ridanciani, forse appena usciti da scuola, e da qualche piccione che faceva colazione. In lontananza squarci d’incolta vegetazione invadevano lo spazio urbano.
Molto in quella città aveva un’aria vagamente familiare: il colore della luce, i suoni della strada, le voci delle persone, la linea antica e nello stesso tempo dimessa degli edifici…
Accidenti!
Credeva di averle dimenticate tutte quelle cose lì, invece erano ancora sepolte da qualche parte nella sua memoria.
Il fiume dei ricordi stava diventando già troppo impetuoso. No, non poteva lasciarsi andare! Quella ormai non era più casa sua.
Era una ferita aperta del resto questa città, e lo sapeva bene. Per questo non aveva voluto più tornarci. Se n’era andato un mattino di dicembre, con la fretta nel cuore, di andare, di dimenticare, e una sciarpa di lana stretta sulla bocca. Era riuscito a fermarsi giusto un attimo per gettare gli occhi umidi al cielo, bianco e gonfio, e veder scendere nevischio misto a nuvole su tutte quelle rovine.
Tutto era iniziato qui, sotto questo stesso cielo che oggi, invece, sembrava guardarlo in maniera indifferente da tutto quell’azzurro così insolente.
Richiuse in fretta la porta-finestra e tornò alla scrivania proprio mentre Eros rientrava nella stanza con un tè fumante e un doppio caffè macchiato.